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IL FASCISMO E LA SICUREZZA SUL LAVORO: UNA STORIA CONTROVERSA

DiRedazione

Nov 5, 2022

Volentieri pubblichiamo l’interessante ricerca storica del prof. Michelangelo Ingrassia che fa un’approfondita analisi sulla sicurezza dei lavoratori nel ventennio fascista

Nella storiografia sul fascismo, l’ambito delle politiche sulla sicurezza nei luoghi di lavoro è poco frequentato. Tranne poche lodevoli eccezioni, il tema degli infortuni è generalmente relegato in qualche paragrafo dei numerosi e preziosi volumi sulle politiche sociali o confinato in sperduti articoli e saggi sparsi nella vasta bibliografia sul regime. Sulla salute e sicurezza dei lavoratori negli anni del fascismo, insomma, manca ancora una ricerca storica di ampio respiro.

Con questo articolo non si pretende certamente di colmare tale lacuna; si vuole semmai segnalare un problema storiografico e tentare di formulare qualche ipotesi in materia, sulla base di appunti e spunti presi come materiali di studio da approfondire. Le ragioni dell’approfondimento non stanno tanto sulla questione della serie “il fascismo ha fatto o meno cose buone” quanto sulla necessità di verificare se e come situazioni, condizioni e comportamenti che hanno caratterizzato il ventennio nero abbiano eventualmente influito sulle epoche successive, fino ai giorni nostri.

La legislazione fascista fra continuità e discontinuità con lo Stato liberale

Che il fascismo abbia, nel corso del ventennio, sviluppato una normativa sulla tutela dei lavoratori è noto ed è anche innegabile. Nella raccolta di leggi e decreti del Regno d’Italia compaiono una serie di norme firmate in tal senso da Mussolini. Con il Regio Decreto Legge 19 marzo 1923, n. 692 fu limitato a 8 ore giornaliere l’orario di lavoro degli impiegati e degli operai delle aziende industriali e commerciali e dell’avventiziato agricolo. Era una forma di prevenzione, osserva Remo Zucchetti. Nel 1927, però, con la Legge 19 maggio 1927, n. 777, le aziende commerciali e agricole furono autorizzate ad andare in deroga alla norma del 1923 aumentando, nei fatti, a 9 ore l’orario di lavoro.

Il 1927 è l’anno della Carta del Lavoro. Si hanno misure riguardanti l’attività ispettiva. La Carta fascista sancì, infatti, l’obbligo per gli organi dello Stato di sorvegliare l’osservanza delle leggi sulla prevenzione degli infortuni. Seguì nel 1931, con il Regio Decreto del 28 dicembre, l’istituzione dell’ispettorato corporativo chiamato a vigilare per l’attuazione di tutta la legislazione sul lavoro comprese le attività igienico-sanitarie. Nel 1926, intanto, era stata costituita l’Associazione Nazionale per il controllo della combustione, preposta alla verifica degli impianti termici sancita dal Regio Decreto Legge n. 1331.

Nell’ambito della salute dei lavoratori va menzionato il Regio Decreto 13 maggio 1929, n. 928 sull’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali. La norma però, scrive Stefano Vinci, è elaborata sulle stesse basi giuridiche del Testo Unico emanato nel 1904; peraltro, aggiunge Ugo Ascoli, essa sancisce il tentativo da parte dello Stato di non accollarsi direttamente l’onere della copertura di un grande rischio.

Con l’approvazione del nuovo codice penale, stabilita dal Regio Decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, si introduce all’art. 437 la fattispecie del delitto di rimozione o omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Gli articoli 589 e 590 istituivano inoltre le fattispecie di omicidio colposo e di lesioni personali colpose; reati configurabili nelle ipotesi infortunistiche occorse in azienda per inosservanza delle disposizioni sulla sicurezza del lavoro.

Nel 1933 è emanata la Legge 22 giugno 1933, n. 860, che unifica le preesistenti Casse Infortuni assegnando la tutela assicurativa a un unico ente che assunse la denominazione di Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INFAIL in seguito divenuto INAIL). L’Istituto era chiamato a esercitare tutte le assicurazioni degli addetti alle imprese, lavorazioni e costruzioni dell’industria, dei trasporti terrestri e del commercio, fino ad allora soggette all’obbligo assicurativo previsto dal Testo Unico del 1904. Rimanevano escluse dalla tutela talune categorie di lavoratori a cominciare dai marittimi della navigazione e della pesca. Con il Regio Decreto 17 agosto 1935, n. 1765, era estesa a tutti i lavoratori assistiti dall’Infail l’automaticità della costituzione del rapporto assicurativo e delle prestazioni e adottato il pagamento degli infortuni più gravi in rendita anziché in capitale.

Infine va menzionato l’articolo 2087 sui doveri dell’imprenditore del nuovo codice civile approvato nel 1942, nel pieno della guerra.

Che l’impianto normativo fascista mostri una continuità con il passato o sviluppi norme provenienti dallo Stato liberale, sia in campo infortunistico sia nel più ampio ambito delle politiche sociali, come sostengono alcuni studiosi tra cui il già citato Ascoli, è chiaro. Che le norme puntino anche alla ricerca e al rafforzamento del consenso di massa, come osservano altri studiosi tra cui il già citato Vinci, è altrettanto chiaro. Va tuttavia riconosciuto che le fattispecie di reato introdotte con il codice penale e il richiamo al dovere degli imprenditori contenuto nel codice civile, non possono non ritenersi innovativi. Il punto, tuttavia, non è esattamente questo. Già Tocqueville avvertiva che i mutamenti di regime, dal vecchio al nuovo, seguono inevitabilmente linee continue e discontinue. Conta invece stabilire l’impatto che la legislazione fascista ebbe materialmente sul fenomeno degli infortuni.

Casi e numeri negli anni del regime

Nel 1925 l’ispettore capo dell’industria e del lavoro Giovanni Loriga, relazionando su una inchiesta condotta in sei stabilimenti della viscosa di quattro diverse società, metteva nero su bianco che “la condizione di insalubrità permanente può aggravarsi da un momento all’altro ed avere catastrofiche conseguenze”. Aveva riscontrato l’assoluta inefficacia dei sistemi di ventilazione, l’inefficacia dei sistemi di aspirazioni alle filiere, l’esposizione a solfuro di carbonio, l’assenza di una sorveglianza sanitaria, la mancanza di una vera strategia tendente al controllo dei rischi specifici di quel ciclo lavorativo. Nel 1925 i finanzieri e gli industriali che creano la Snia Viscosa e altre società, hanno raggiunto l’obiettivo di conquistare i mercati esteri della seta artificiale. Lo conquistano, aumentando il profitto, a discapito della salute e sicurezza dei lavoratori e delle lavoratrici.

Nell’ottobre 1929, in Sicilia, alcuni giornalisti giunti nell’Isola per un’inchiesta sulla condizione dei minatori, pubblicano un reportage tutto prosperità e felicità. Racconta Gaetano Salvemini che l’articolo suscitò le proteste del segretario dell’organizzazione sindacale fascista, che inviò una coraggiosa lettera di denuncia al giornale “Il Lavoro fascista” pubblicata il 2 novembre e nella quale, elencando i sette lavoratori caduti e i dodici infortunati gravi in seguito a un incidente accaduto il 15 febbraio 1928, scriveva “Come si fa ad affermare ai giornalisti che da due anni non succedono disgrazie in miniera? Le disgrazie succedono e continueranno fino a quando la miniera non sarà fornita di quei mezzi tecnici necessari a garantire la incolumità degli operai. Ora nessuna precauzione è presa”.

Nel 1921 il numero degli infortuni sul lavoro nell’industria era di 134.336; nel 1942 diventano 677.049 mentre gli infortuni mortali vanno dai 422 del 1922 ai 1007 del 1931, fino ai 2.177 del 1941.

Nel 1931 il senatore Ettore Ciccotti, socialista, durante una discussione in Senato, osserverà che una pubblicazione fascista ufficiale ammetteva che il numero di infortuni accaduti effettivamente fosse dodici volte maggiore della cifra riportata.

Gaetano Salvemini  scrive che nel 1922 la famiglia di un morto sul lavoro nel settore industria riceveva una indennità media di lire 24.435; nel 1933 l’indennità era scesa a lire 20.654.

Nel primo quadriennio di gestione assicurativa Infail si erano registrate 1.693 denunce di malattie professionali ma l’Istituto ne aveva riconosciute e indennizzate solo 764.

Sono tutti casi e numeri che dimostrano l’incoerenza tra norme legislative e realtà dei fatti. Nell’Italia fascista non vi era traccia di prevenzione né di cultura della salute e sicurezza sul lavoro e il comportamento dello Stato e dei datori di lavoro era neutralista e di facciata per un verso, cinico per l’altro. Produrre a costi molto bassi, da un lato; andazzo invalso, dall’altro. Sono situazioni e comportamenti sopravvissuti al fascismo e destinati a sedimentarsi e incidere sociologicamente, psicologicamente e culturalmente nel carattere dello Stato e dei datori di lavoro.

Non va dimenticato che il fascismo aveva abolito il Ministero del Lavoro, istituito nel 1920, e lo aveva sostituito con quello dell’Economia. Il lavoro diventava così una variabile dipendente dall’economia. Questa mutazione è attiva e operante anche oggi e va sconfitta, se si vuole contrastare veramente ed efficacemente il fenomeno degli infortuni sul lavoro. Al di là delle cose buone o non buone fatte dal fascismo, esso non ha nulla da insegnare in tema di salute e sicurezza sul lavoro; ma neppure da replicare.

Michelangelo Ingrassia

Riferimenti bibliografici
S. Vinci, Il fascismo e la previdenza sociale, Cacucci editore, Bari 2011

A. Baldasseroni, F. Carnevale, La salute dei lavoratori in Italia tra fascismo e postfascismo: uno sguardo di genere, in E. Betti, C. De Maria (a cura di), Genere, salute e lavoro dal fascismo alla RepubblicaBraDypUS editore, Roma 2020

G. Salvemini, Scritti sul fascismo, III, Feltrinelli, Varese 1974

Epidemiologia&prevenzione, n. 2, marzo-aprile 2018